venerdì 28 novembre 2008

Crisi d'astinenza.

Crisi d'astinenza.
Qualcuno faccia IMMEDIATAMENTE smettere di piovere.
No, non piovere.. d-i-l-u-v-i-a-r-e.
Ho bisogno di correre.
Non m'importa del freddo, non mi è mai importato molto delle condizioni atmosferiche.
Solo che oggi diluvia, letteralmente.
E io sono a corto di abbigliamento podistico tecnico, cosicchè se esco oggi e mi inzuppo non potrò correre domani e domani le previsioni han messo solo nuvole, soltanto nuvoloni grigio-neri che non mi fanno paura.
Devo correre.
Mi sento molto una drogata in questi momenti.
Ma ho imparato, imparato che se una coscia mi fa leggermente male, se la sento indolenzita, devo respirare profondamente e fermarmi. Avere un minimo cura di queste gambe che, volente o nolente, sono loro che mi fanno correre.
E allora oggi è brutto tempo e la coscia fa un pochino male. Oggi mi devo riposare.
Ma ho bisogno di correre.
Non mi sento drogata. Io sono drogata.
Sono poche le cose che mi fanno sentire bene e quando mi vengono a mancare vado in palla.
E rotolo, come una palla. Invece di correre, rotolo.
Ma rotolare non mi piace, che a rotolare son buoni tutti perchè non si deve fare nulla, non si fatica e non si ha la sensazione, sotto il sole o sotto le intemperie, di essere quasi quasi un pochino degli eroi.
E poi, rotolando come palle, ti cadono pure le palle. Persino a me, che non ce le ho.
Nelle mie crisi di astinenza arrivo persino a pensare che mi piacerebbe avere un tapis-roulant.
Sono una drogata.
Io odio il tapis-roulant. Non c'è niente di più brutto che correre restando fermi. Soprattutto dopo aver provato cosa si sente correndo per le strade e in mezzo ai campi.
Però un tapis-roulant, adesso, qui.. infilarmi i pantaloncini e andare..
Ma andare dove?
Droga, droga, droga.. mi fa sragionare.
Si tratta solo di aspettare.

venerdì 21 novembre 2008

Dedicato a tutti quelli che stanno scappando.

Me-di-ter-ra-ne-o: sussurrato così, sillaba per sillaba, è ancora più forte il pathos mitico del nostro mare. È nostro, questo mare, perché ne abbiamo i colori negli occhi, il profumo nella memoria, la tentazione nel cuore. La stessa tentazione di Odisseo: la dolcezza del dimenticare, la tiepida quiete del sole, la sospensione del tempo, la fuga da Penelope. Chi non ha mai provato la tenerezza di questo sussurro: Me-di-ter-ra-ne-o? Son queste cose che il film di Salvatores evoca. Il pericolo è di non accorgersene, rincorrendo - per amor di banalità - quello che sembra attuale. Mediterraneo parla di guerra, di italiani in guerra, e di fuga. Scritto due anni prima dell'uscita, appare in un clima che gli può solo nuocere. Non vediamolo come se i suoi autori - Salvatores e lo sceneggiatore Vincenzo Monteleone - avessero girato un qualunque film d'impegno sulla guerra, contro la guerra. Questo non è un film contro, per fortuna. Se lo fosse, non sarebbe il bel film che è. Mediterraneo parla di una fuga, certo: fuga da Penelope e dalla sua ovvietà. Ossia: fuga dalla seriosità degli impegnati, fuga dalla stupidaggine dei dinamici, fuga dal cinismo degli uomini-guida, fuga dalla volgarità dei profittatori in buona o in cattiva coscienza. Già in Kamikazen (1987) Salvatores aveva a cuore tutto questo. Ma qui arriva a una maturità, una misura, una profondità, una "leggerezza", un senso del racconto e dei tempi di montaggio che ne fanno davvero un autore, e non un piccolo autore. Nonostante le apparenze, sono un gruppo di amici metropolitani questi soldati che la burocrazia - imbecillità e pigrizia del potere - manda in un'isola perduta nel Mediterraneo. Sono lo stesso gruppo di amici che Salvatores ha narrato negli altri suoi film: trentenni comuni, uomini come tanti altri, in bilico tra un'utopia che sfuma e un realismo che incombe. In Mediterraneo sono meno riconoscibili, meno legati a una tipicità metropolitana. E però sono metropolitani: metropolitana è la loro utopia, come il loro linguaggio, le loro paure, i loro gesti (bravi tutti gli attori, bravissimi Diego Abatantuono e, in una difficile parte marginale, Claudio Bisio). La poetica di Salvatores è tra le poche che, in Italia, non siano provinciali ed ex contadine. I suoi valori non stanno nel passato. I suoi personaggi non vogliono recuperare nulla del ruralismo che il paese si è lasciato alle spalle. D'altra parte, non condividono gli entusiasmi fessi di chi scambia il folclore metropolitano per cultura metropolitana, di chi ha fatto dello yuppismo un'ideologia. La loro utopia, anzi, è che sia possibile essere metropolitani senza soccombere all'apologia imbecille del successo, all'immoralità del carrierismo. Questo gruppo di amici, di gente comune, viene sbalzato ai confini estremi dell'ovvietà e dell'appartenenza. Dell'appartenenza significa: della somma di opinioni, valori e simboli che, tutti insieme, costituiscono la cultura e l'anima di un paese. Dell'ovvietà significa: della fede scontata nel dovere di darsi da fare perché l'appartenenza funzioni. Gli si è chiesto di far la loro parte, in tutto ciò, e di farla credendoci. Ma un'isoletta greca, con la sua assolata estraneità alla Storia, incrina quella fede e suggerisce la tentazione di fuggire. Uno dei meriti, e non il minore, di Mediterraneo è di raccontare questa tentazione senza tradire la commedia: si vede d'un fiato, sorridendo e ridendo (e riconoscendosi). Salvatores e Monteleone amano i loro personaggi: non li deridono per farci ridere, non li deturpano con il folclore. Insomma, la loro è una commedia, ma non è «all'italiana» e neppure «italiana». Sono coerenti: negano in questo modo la loro "ovvia appartenenza" a un cinema che si distingue per il disprezzo di sempre nei confronti delle storie comuni della gente comune; a un cinema colmo di servi buffi e di villani, di caricature ruralistiche. Rispettando questi uomini comuni, dunque, gli autori ne seguono i diversi modi di reagire alla tentazione della fuga. C'è chi, per tornare dalla sua Penelope, rema su una barchetta fino a Cipro. Ci sono altri che, in felice incoscienza, assaporano il sole, come in una vacanza. Tornano, questi. Tornano a fare il loro "dovere", ancora una volta tra le braccia dell'ovvietà. E c'è anche chi davvero diserta, nascosto in una botte di olive.

Altri, invecchiati, riprenderanno una nave verso l'isola: anche loro in fuga, alla fine, dalla seriosità degli impegnati, dalla stupidaggine dei dinamici, dal cinismo degli uomini-guida, dalla volgarità al cinismo. Ci si specchia, forse, nella loro onesta rabbia triste, sullo sfondo mitico-azzurro del mare di Odisseo. D'altra parte, per girare un film come Mediterraneo per sentire questa onesta rabbia triste, occorre sognarla, la fuga, e avere il coraggio di non praticarla.


venerdì 14 novembre 2008

Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto...

..ed io avrò cura di te..

io sì, che avrò cura di te.

martedì 11 novembre 2008

La stanza era quasi al buio.


La stanza era quasi al buio. Mi ci addentrai per qualche passo, cercando di aguzzare la vista. A quel punto sentii che la porta si chiudeva alle mie spalle e, quando mi voltai, la bambina era sparita. Sentii scattare il meccanismo della serratura e seppi di essere chiuso dentro. Per un minuto rimasi lì, immobile. Lentamente gli occhi si abituarono alla penombra e i contorni della stanza si materializzarono intorno a me. Le pareti erano ricoperte di tela nera dal pavimento al soffitto. Su un lato si indovinava una serie di strani aggeggi che non avevo mai visto e che non fui in grado di decidere se mi paressero sinistri o tentatori. Un ampio letto circolare giaceva sotto una testiera simile a una grande ragnatela da cui pendevano due candelieri nei quali due ceri neri ardevano sprigionando quel profumo di cera che si annida nelle cappelle e nelle camere ardenti. Accanto al letto c'era una grata dal disegno sinuoso. Rabbrividii. Quel posto era identico alla camera da letto che avevo creato nella finzione per la mia ineffabile vampira Chloè e le sue avventure nei Misteri di Barcellona . C'era puzza di bruciato. Mi preparavo a cercare di forzare la porta quando mi accorsi di non essere solo. Mi fermai, raggelato. Un profilo si disegnava dietro la grata. Due occhi brillanti mi osservavano e riuscii a distinguere le dita bianche e affusolate, con lunghe unghie smaltate di nero, che spuntavano dai fori della grata. Deglutii.

"Chloè?" mormorai.

Era lei. La mia Chloè. L'operistica e insuperabile femme fatale dei miei racconti, in carne e lingerie. Aveva la pelle più candida che avessi mai visto, e i capelli neri e lucidi tagliati ad angolo retto le incorniciavano il viso. Le labbra sembravano dipinte di sangue fresco e nere aure d'ombra le circondavano gli occhi verdi. Aveva movenze feline, come se quel corpo attillato in un corsetto rilucente come squame fosse d'acqua e avesse imparato a prendersi gioco della gravità. La gola slanciata ed interminabile era circondata da un nastro di velluto scarlatto dal quale pendeva un crocifisso rovesciato. La osservai avvicinarsi lentamente, incapace perfino di respirare, gli occhi inchiodati a quelle gambe disegnate con tratto impossibile dentro calze di seta che probabilmente costavano più di quanto io guadagnassi in un anno e sostenute da scarpe a punta annodate alle caviglie con nastri di seta. In vita mia non avevo mai visto niente di così bello, nè di così terribile.

Mi lasciai condurre da quella creatura fino al letto, dove caddi, letteralmente, di culo. La luce delle candele accarezzava il profilo del suo corpo. Il mio volto e le mie labbra rimasero all'altezza del suo ventre nudo e senza nemmeno rendermi conto di quello che stavo facendo la baciai sotto l'ombelico e le sfiorai la pelle con la guancia. A quel punto mi ero dimenticato chi ero e dove mi trovavo. Lei si inginocchiò di fronte a me e mi prese la mano destra. Languida, come un gatto, mi leccò le dita a una a una, poi mi fissò e cominciò a spogliarmi. Volevo aiutarla, ma sorrise e allontanò le mie mani.
"Shhh."
Quando ebbe finito, si accostò al mio viso e mi leccò le labbra.
"Adesso tu. Spogliami. Piano. Molto piano."
Seppi allora di essere sopravvissuto a un'infanzia malaticcia e spiacevole solo per vivere quei secondi. La spogliai lentamente, sfogliandole la pelle finchè le restarono solo il nastro di velluto intorno alla gola e quelle calze nere del cui ricordo tanti poveracci come me avrebbero potuto vivere cent'anni.

"Accarezzami"mi sussurrò all'orecchio. "Gioca con me."

Accarezzai e baciai ogni centimetro della sua pelle come se volessi memorizzarlo per tutta la vita. Chloè non aveva fretta e rispondeva al tocco delle mie mani e delle mie labbra con leggeri gemiti che mi guidavano. Poi mi fece stendere sul letto e mi ricoprì con il suo corpo finchè sentii bruciare ogni poro. Le posai le mani sulla schiena e percorsi la linea miracolosa che segnava la sua colonna vertebrale. Il suo sguardo impenetrabile osservava il mio viso da pochi centimetri di distanza. Sentii che dovevo dirle qualcosa.
"Mi chiamo..."
"Shhhh."
Prima che potessi dire qualche altra stupidaggine, Chloè appoggiò le sue labbra sulle mie e, per un'ora, mi fece scomparire dal mondo. Consapevole della mia goffaggine, ma lasciandomi credere che non la notava, Chloè anticipava ogni mio movimento e guidava le mie mani lungo il suo corpo senza fretta nè pudore. Non c'era fastidio nè assenza nei suoi occhi. Si lasciava toccare e assaporare con infinita pazienza e con una tenerezza che mi fece dimenticare com'ero giunto fin lì. Quella notte, per il breve spazio di un'ora, imparai ogni piega della sua pelle come altri imparano le preghiere o le maledizioni. Più tardi, quando quasi non mi restava più fiato, Chloè mi lasciò appoggiare la testa sui suoi seni e mi accarezzò i capelli durante un lungo silenzio, fino a quando mi addormentai tra le sue braccia con la mano tra le sue cosce.
Tratto da "Il Gioco dell'Angelo"
di Carlos Ruiz Zafòn

venerdì 7 novembre 2008

Perchè, malgrado tutto, il berlusconismo trionfa.


Se il libero voto premiasse il buon governo, Silvio Berlusconi sarebbe sconfitto. Ma lui conosce il popolo e le sue debolezze. Nella sua fulminante ascesa, Silvio ha eccelso in tutto ciò che il buon governo teme e condanna , a cominciare dal carrierismo più sfrenato e dalla concorrenza senza esclusione di colpi e senza freni. Nella sua esperienza d'imprenditore ha perseguito con successo tutto ciò che ha danneggiato la modernità capitalistica fino all'attuale crisi: un aziendalismo implacabile pronto a servire la politica più avventurista pur di ricavare vantaggi, l'uso mistificatorio della pubblicità volto a moltiplicare i consumi inutili e magari dannosi, la diffusione di una cultura di massa basata sui gusti peggiori delle masse, un uso continuo dello spettacolo e del sesso nello spettacolo per addormentare le coscienze e aprire la strada all'autoritarismo morbido, alla sera tutti davanti alla tv a guardare le belle gnocche con la bottiglietta di birra a portata di mano.
Non che Silvio abbia inventato questo tipo di modernità, diciamo la società attuale o prossima ventura dei poveri sempre più poveri di conoscenze e di potere e dei ricchi sempre più ricchi di denaro e di privilegi, non diamogli colpe o responsabilità che sono un portato dei tempi, della storia; ma, insomma, lui non si è tirato indietro, il suo contributo allo sfascio lo ha dato. E allora perchè la sua popolarità cresce, perchè lo si vede già capo dello Stato, perchè il berlusconismo è o sembra trionfante?
Il sociologo francese Pierre Musso ha scritto un saggio intitolato Il Sarkoberlusconismo, in cui spiega il successo dei due come il prodotto etremo della telesocietà, della tv e di internet. I due hanno capito tra i primi che bisognava potenziare in politica i fondamenti brutali della way of life darwiniana: i più forti e spregiudicati vincono, i perdenti vengono accomunati nel disprezzo, sono tutti comunisti, tutti sessantottini. La vittoria dei primi è nell'ordine naturale delle cose come lo è la sconfitta dei secondi, gli oppositori sono contro natura. "Questi sabotatori sono normali, secondo voi?" domandano i capi vincenti ai loro seguaci. "No", rispondono gli altri a comando. Il mondo della politica per il buon governo, della dialettica, cede il campo a quello delle antitesi radicali, dei salvatori e dei demoni, dei ricchi e dei poveri. Come uscirne? Silvio ha dato una risposta, perfetta perchè irreale, da sogno: "Sposatevi un milionario".
Giorgio Bocca.
Articolo tratto da "Il Venerdì di Repubblica".

martedì 4 novembre 2008

Fuori sta piovendo forte.


Fuori sta piovendo forte, sono sdraiata sul letto a pancia in giù e scrivo. Ho provato a chiudere un po' gli occhi per dormire, ma forse l'adrenalina è ancora a livelli troppo alti per riuscire a riposare. Oppure, forse, sono troppi i pensieri che mi frullano per la testa. Inutile dire che sono al settimo cielo, che mi sento sollevata e, finalmente, più tranquilla..ma c'è di più, c'è una sensazione strana che mi accompagna da stamattina, da quando sono entrata in stazione e mi sono messa ad aspettare il treno. Ho iniziato a ricordare, a rivivere certi momenti passati ma tanto simili ai gesti di oggi..

..guardare fuori dal finestrino il paesaggio che scorre, sempre lo stesso, con i soliti campi appiattiti dalla nebbia..

..sentire il cellulare che vibra e sapere che è il messaggino di mamma con i tre in bocca al lupo che mi fa da quando andavo alle medie, nel giorno di un'interrogazione o di un compito in classe..

..camminare svelta sotto i portici di Via Indipendenza e di Via Irnerio e poi girare in una delle viuzze traverse (non una qualsiasi, per scaramanzia prendo sempre la stessa)..

..ritrovarmi nel cuore della zona universitaria, pensare a quanto è antica e allo stesso tempo troppo sporca e moderna..

..amarla e odiarla, come tante cose nella vita.. pensare a Imola e avere già voglia di tornare indietro..

Ma oggi ho finito gli esami e tutto questo mi è sembrato, se non completamente, comunque abbastanza diverso. Oggi ho messo un punto ad una frase iniziata 4 anni fa e credo che, allora, non avrei mai creduto di poter arrivare a questo momento con la grinta che adesso sento dentro. Quattro anni fa ero spenta e apatica, dicevo in giro di essere felice ma solo io sapevo come stavo davvero. Andare a lezione mi piaceva, ma credo che l'interesse per le materie c'entrasse fino ad un certo punto. Prendere il treno e stare lontana dalla vita di sempre, mangiare solo 2 mele nell'arco di una giornata, tornare a casa e sentirmi stanca da morire e debole ancora di più. Questa, per quasi 2 anni, è stata per me l'università. Poi pian piano sono cambiate tante cose, sono cambiata molto anch'io, suppongo. E' stato difficile, è stato faticosissimo (altro che le mie corse!) rialzare la testa e guardare avanti, in una qualche direzione. Non sono mai stata sola, ma mi ci sono sentita sempre. E adesso, davvero, non so cosa darei per tornare indietro e riaggiustare tutto.. per prendere me stessa e darmi da sola un bello scrollone, auto-impormi di aprire gli occhi e, soprattutto, insegnarmi ad accettarmi per quella che sono.

Ma poi penso che ormai è andata così, che mi dispiacerà sempre per quel lungo e sonnecchiante letargo, per le amicizie trascurate e le cose non dette, per gli esami rimandati e il guscio dietro il quale mi sono letteralmente trincerata. E penso che forse c'è davvero un sentiero che ciascuno di noi deve percorrere per arrivare in cima alla montagna e trovare un caldo ed accogliente rifugio. La salita non si fa senza sudare e a volte ci si ritrova a scivolare, perdendo terreno. Alla fine però il panorama lascia senza fiato e non si sente più niente, nè caldo, nè freddo, nè dolori muscolari, nè affanno. Solo gioia. E allora va benissimo così, perchè se quello che c'è stato, di tremendamente brutto e poi di tremendamente bello, da 4 anni a questa parte, doveva condurmi passo passo fin qui, io me lo prendo e me lo abbraccio tutto.

Oggi ho messo un punto ad una frase iniziata 4 anni fa. E' ora di girare pagina. C'è ancora un intero quaderno da scrivere.