venerdì 21 novembre 2008

Dedicato a tutti quelli che stanno scappando.

Me-di-ter-ra-ne-o: sussurrato così, sillaba per sillaba, è ancora più forte il pathos mitico del nostro mare. È nostro, questo mare, perché ne abbiamo i colori negli occhi, il profumo nella memoria, la tentazione nel cuore. La stessa tentazione di Odisseo: la dolcezza del dimenticare, la tiepida quiete del sole, la sospensione del tempo, la fuga da Penelope. Chi non ha mai provato la tenerezza di questo sussurro: Me-di-ter-ra-ne-o? Son queste cose che il film di Salvatores evoca. Il pericolo è di non accorgersene, rincorrendo - per amor di banalità - quello che sembra attuale. Mediterraneo parla di guerra, di italiani in guerra, e di fuga. Scritto due anni prima dell'uscita, appare in un clima che gli può solo nuocere. Non vediamolo come se i suoi autori - Salvatores e lo sceneggiatore Vincenzo Monteleone - avessero girato un qualunque film d'impegno sulla guerra, contro la guerra. Questo non è un film contro, per fortuna. Se lo fosse, non sarebbe il bel film che è. Mediterraneo parla di una fuga, certo: fuga da Penelope e dalla sua ovvietà. Ossia: fuga dalla seriosità degli impegnati, fuga dalla stupidaggine dei dinamici, fuga dal cinismo degli uomini-guida, fuga dalla volgarità dei profittatori in buona o in cattiva coscienza. Già in Kamikazen (1987) Salvatores aveva a cuore tutto questo. Ma qui arriva a una maturità, una misura, una profondità, una "leggerezza", un senso del racconto e dei tempi di montaggio che ne fanno davvero un autore, e non un piccolo autore. Nonostante le apparenze, sono un gruppo di amici metropolitani questi soldati che la burocrazia - imbecillità e pigrizia del potere - manda in un'isola perduta nel Mediterraneo. Sono lo stesso gruppo di amici che Salvatores ha narrato negli altri suoi film: trentenni comuni, uomini come tanti altri, in bilico tra un'utopia che sfuma e un realismo che incombe. In Mediterraneo sono meno riconoscibili, meno legati a una tipicità metropolitana. E però sono metropolitani: metropolitana è la loro utopia, come il loro linguaggio, le loro paure, i loro gesti (bravi tutti gli attori, bravissimi Diego Abatantuono e, in una difficile parte marginale, Claudio Bisio). La poetica di Salvatores è tra le poche che, in Italia, non siano provinciali ed ex contadine. I suoi valori non stanno nel passato. I suoi personaggi non vogliono recuperare nulla del ruralismo che il paese si è lasciato alle spalle. D'altra parte, non condividono gli entusiasmi fessi di chi scambia il folclore metropolitano per cultura metropolitana, di chi ha fatto dello yuppismo un'ideologia. La loro utopia, anzi, è che sia possibile essere metropolitani senza soccombere all'apologia imbecille del successo, all'immoralità del carrierismo. Questo gruppo di amici, di gente comune, viene sbalzato ai confini estremi dell'ovvietà e dell'appartenenza. Dell'appartenenza significa: della somma di opinioni, valori e simboli che, tutti insieme, costituiscono la cultura e l'anima di un paese. Dell'ovvietà significa: della fede scontata nel dovere di darsi da fare perché l'appartenenza funzioni. Gli si è chiesto di far la loro parte, in tutto ciò, e di farla credendoci. Ma un'isoletta greca, con la sua assolata estraneità alla Storia, incrina quella fede e suggerisce la tentazione di fuggire. Uno dei meriti, e non il minore, di Mediterraneo è di raccontare questa tentazione senza tradire la commedia: si vede d'un fiato, sorridendo e ridendo (e riconoscendosi). Salvatores e Monteleone amano i loro personaggi: non li deridono per farci ridere, non li deturpano con il folclore. Insomma, la loro è una commedia, ma non è «all'italiana» e neppure «italiana». Sono coerenti: negano in questo modo la loro "ovvia appartenenza" a un cinema che si distingue per il disprezzo di sempre nei confronti delle storie comuni della gente comune; a un cinema colmo di servi buffi e di villani, di caricature ruralistiche. Rispettando questi uomini comuni, dunque, gli autori ne seguono i diversi modi di reagire alla tentazione della fuga. C'è chi, per tornare dalla sua Penelope, rema su una barchetta fino a Cipro. Ci sono altri che, in felice incoscienza, assaporano il sole, come in una vacanza. Tornano, questi. Tornano a fare il loro "dovere", ancora una volta tra le braccia dell'ovvietà. E c'è anche chi davvero diserta, nascosto in una botte di olive.

Altri, invecchiati, riprenderanno una nave verso l'isola: anche loro in fuga, alla fine, dalla seriosità degli impegnati, dalla stupidaggine dei dinamici, dal cinismo degli uomini-guida, dalla volgarità al cinismo. Ci si specchia, forse, nella loro onesta rabbia triste, sullo sfondo mitico-azzurro del mare di Odisseo. D'altra parte, per girare un film come Mediterraneo per sentire questa onesta rabbia triste, occorre sognarla, la fuga, e avere il coraggio di non praticarla.


8 commenti:

Bk ha detto...

Anch'io voglio sentirmi a mio agio dentro un barile di olive...
e sentirmi a casa.
Anche io voglio la mia Vassylissa...
Anche io voglio la mia isola...

Anonimo ha detto...

le ie ex-fisioterapiste t amarebbero x le belle parole ke hai speso x mediterraneo ma pure stavolta me lo sn perso...beh tti vorrebbero fare una cosa del genere ma sl poki ne hanno il coraggio,o nn è così?!

JAENADA ha detto...

Il mio desiderio e' fuggire.Fuggire da cio' che conosco,fuggire da ciò che e' mio,fuggire da cio' che amo.Desidero partire verso un luogo qualsiasi,villaggio o eremo,che possegga la virtu' di non essere questo luogo.Non voglio piu' vedere questi volti,queste abitudini e questi giorni.Voglio riposarmi,da estraneo,dalla mia organica simulazione.Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo.Una capanna in riva al mare,perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna,mi puo' dare questo.Purtroppo soltanto la mia volonta' non me la puo' dare.
....L'amore codardo che tutti noi proviamo per la liberta' e' il vero indizio del peso della nostra schiavitu'.Io stesso che ho appena detto che desidererei una capanna in riva al mare per essere libero dlla noia di tutto,che poi e' la noia che provo per me,oserei forse andare in quella capanna consapevole che,dato che la noia mi appartiene,essa sarebbe sempre presente?Io stesso,che soffoco dove sono e perche' sono,dove mai respirerei meglio se la malattia e' nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano?"
(F.Pessoa,Il libro dell'Inquietudine)

Come direbbe il tuo conterraneo Tonino Guerra: "Viva l'ottimismooo" :)

Bacio

digito ergo sum ha detto...

conosco un tale che scappava. ma scappava davvero, eh.

scappava da gente che non gli voleva un granché bene. lui non voleva affrontarla, quella gente lì. e allora scappava. correva, viaggiava, sognava, camminava, guidava. c'ha messo vent'anni. e intanto, al suo paesello, la gente aspettava.

scappa oggi, scappa domani, è scappato proprio dappertutto.

poi, ed era inevitabile, scappando scappando, aveva girato tutto il mondo e si è ritrovato a scappare ancora, arrivando nuovamente al paesello.

arrivato al paesello, riguadagnando la posizione eretta dopo essersi retto un po' le ginocchia nel tentativo di riprender fiato, ha alzato la testa e si è ritrovato tutta quella gente da cui scappava. erano tutti lì, seduti in piazza a leggere il giornale. quando lo hanno visti, calmi calmi e lenti lenti, han lasciato ognuno il giornale sulla panchina, si sono avvicinati e lo hanno gonfiato di botte, ma tante... botte date con una rabbia repressa per vent'anni.

occhei. ho detto.

un abbraccio

SCHIAVI O LIBERI ha detto...

Più che scappare, credo sia il momento di assumersi le proprie responsabilità come esseri umani su questo pianeta.
Bel post.
Un caro saluto.

Squilibrato ha detto...

Il film è bellissimo!!!

Alberto ha detto...

Capolavoro!
Anche il post. ;-)

Un abbraccio Oscar :-)

Lillo ha detto...

Scappare è una gran tentazione, eh, ma di solito non serve a molto.

Anche se c'ho una voglia...